Rigamonti punta all’export senza dimenticare le sue origini
Intervista all'ad Claudio Palladi. Il produttore di bresaola pianifica un incremento delle esportazioni e punta a valorizzare le eccellenze enogastronomiche della Valtellina
di Alessandra Favaro
Ultima Modifica: 13/11/2018
Con 130 euro milioni di fatturato annuo, 154 dipendenti fissi, una trentina di interinali nelle aree di affettamento e magazzino più un ventina di persone che si occupano di servizi mensa e pulizia, Rigamonti Salumificio Spa ha riconquistato la sua posizione leader nel mercato, immettendo nuovi prodotti e rafforzando la sua posizione di alimento sano e adatto anche al mondo del fitness (a cui ha dedicato anche un hashtag, #rigamonti4fit e un nuovo prodotto dedicato a sportivi e amanti dell’outdoor “Quando e Dove Vuoi”)
“Copriamo il 33% della produzione di bresaola al mondo e il mercato sta seguendo un trend positivo” afferma l’ad Claudio Palladi durante un’intervista alla recente Valtellina Wine Trail, di cui Rigamonti è main sponsor.
Una sponsorizzazione non a caso, spiega Palladi:
“Questa manifestazione ci è cara perchè unisce il piacere di una vita sana alla scoperta dei prodotti tipici locali. Speriamo che possa crescere edizione dopo edizione e unire a noi altri sponsor, per costruire un evento sempre più rappresentativo della Valtellina”.
La valorizzazione del territorio è tra gli obiettivi dell’azienda valtellinese, assieme al potenziamento dell’export. Rigamonti guarda con interesse agli Stati Uniti, mentre si sono aperti canali verso Emirati Arabi e Giappone. Ma c’è ancora molto lavoro da fare.
“Per incrementare l’export servirebbe che le istituzioni italiane si attivassero maggiormente per consentire di rimuovere barriere sanitarie che ancora oggi ci impediscono di raggiungere alcuni paesi molto interessati, tipo il Nord America Appunto”.
Barriere sanitarie? In che senso ?
“Oggi non è possibile mandare bresaola in Nord America perchè il salume di carne bovina non è approvato sanitariamente. Un blocco che è un’eredità del passato fenomeno della cosiddetta “mucca pazza”, per cui, ancora oggi, non entrano bovini italiani in America né tantomeno prodotto lavorati da bovini. Noi paradossalmente abbiamo prodotti derivati da bovini di altri paesi che sono autorizzati ad andare negli USA; ma che quando lavorati in italia non possono più farlo”.
Serve più incisività da parte dell’Italia quindi?
“Sicuramente il sistema Paese non è capace di far si che in nostri prodotti, non avendo problemi reali possano andare negli Usa. Il lavoro che l’Italia dovrebbe fare per favorire l’export del prodotto è questo. In Usa ma anche in Giappone per esempio…”
Cioè?
“In Giappone è stato formalmente ammessa dalle autorità giapponesi l’importazione del prodotto italiano bresaola, ma non ci sono ancora le disposizioni che consentono alle aziende di produrre tutte le documentazioni necessarie. Siamo un paese che ogni tanto si crea degli ostacoli da solo”.
Lei è anche vicepresidente del consorzio della Bresaola di Valtellina, in un momento di export ancora in embrione, ci sono problemi di Italian sounding e false bresaole vendute all’estero?
“Si. Ma dico anche che con la questione dell’Italian sounding bisogna piantarla di essere vittimisti e cominciare a censurare chi produce all’estero prodotti che vorrebbero essere nostre imitazioni. A volte, realizzati proprio da italiani all’estero.
Premesso che con i sistemi di condizionamento si possono fare molte cose, ma i nostri sono prodotti che vivono di saper fare, di manodopera che noi abbiamo qui, di muffe locali che servono a realizzare un prodotto buono. Ricostruire queste cose in laboratorio è una cosa molto diversa che non garantisce lo stesso risultato”.
Rigamonti vuole aprirsi al mondo senza dimenticare il suo territorio d’origine. Da qui la decisione di sponsorizzare da diversi anni la Valtellina Wine Trail ma anche di avvirare progetti, assieme a Coldiretti, per istituire una filiera di bresaola con carne italiana al cento per cento.
“Siamo un’azienda del territorio che offre prodotti eccezionali e complementari alla nostra bresaola. Il miglior modo per essere ambasciatori del cibo italiano è avere l’opportunità di portare la gente a vivere una territorio e di conoscere i suoi prodotti e poi permetterle di poter rivivere la loro autenticità acquistandoli e portandoli a casa”
La bresaola è un prodotto tipico italiano ma non è italiana la carne che si utilizza. Almeno, non sempre. Perché?
“Oggi la carne disponibile Italiana per produrre bresaola non arriva al 2% del totale del fabbisogno dell’intera filiera. Utilizziamo carne proveniente dal sud America, dopo aver visitato fazendas certificate per la qualità della carne, il benessere animale e l’impatto sul territorio. Abbiamo anche avviato una produzione con Bresaola 100% italiana, sempre mantenendo questi principi di alta qualità.
La lavorazione però, il sapere custodito in Valtellina, avviene qui. Se non avessimo questa materia prima di carne estera non esisterebbe questo distretto alimentare che qui dà lavoro in tutto a quasi duemila persone tra indotto e diretti”.
Fu un’intuizione di Emilio Rigamonti, uno dei fondatori, quella di “industrializzare” in senso positivo questo prodotto tipico del territorio , rendendolo accessibile a molte persone.
“Oggi il distretto vive di carne estera prevalentemente sudamericana, dove esistono spazi per allevare bestiame all’aperto, ma anche se mancano grandi quantità di carne italiana, nulla ci vieta di provare a promuovere una filiera al 100% locale. E lo stiamo facendo da due anni con l’accordo sottoscritto con Coldiretti in cui ci siamo impegnati a lavorare con loro per promuovere una filiera di carne italiana, comprando attraverso di loro la carne per fare bresaola 100% italiana. Ogni confezione illustra chiaramente al consumatore che tipo di carne viene utilizzata e la provenienza”.
Ecco la video intervista a Claudio Palladi
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