Export agroalimentare in Cina: partita ancora tutta da giocare
Giro d’affari di 440 milioni di euro nel 2018 su un fatturato complessivo di oltre 13 miliardi. Prodotto più venduto: il vino con 127 milioni. Sace: quota di mercato del food&beverage troppo modesta rispetto alle potenzialità del made in Italy
di Vito de Ceglia
Ultima Modifica: 25/03/2019
Con un giro di affari di 127 milioni di euro, il vino italiano è stato il prodotto più esportato in Cina nel 2018. Incide per un terzo sull’export complessivo di oltre 400 milioni di euro (29%), tanto che l’Italia rappresenta oggi il quinto fornitore di vino nelle esportazioni verso Pechino. Seguono a distanza il comparto lattiero-caseario (33 milioni di euro) e l’olio d’oliva (27 milioni), che insieme valgono circa il 15% del fatturato agroalimentare italiano in Cina.
I dati sono stati diffusi dall’Ufficio studi di Cia-Agricoltori Italiani in occasione della visita di Stato del presidente Xi Jinping a Roma. Dalla ricerca emerge che il nostro export agroalimentare in quel Paese ha toccato esattamente quota 440 milioni di euro, a fronte di importazioni cinesi in Italia per 595 milioni. L’interscambio commerciale agroalimentare si è chiuso quindi a favore di Pechino per una valore di 154,5 milioni di euro nel 2018.
Lo studio puntualizza, però, che a incidere sul saldo negativo per l’Italia è stato il peso importante (33%) esercitato dalla categoria “animali da pellicceria e pelli da pelliccia” all’interno della categoria prodotti agroalimentari made in China. Se si escludono queste “voci” dal computo finale, l’analisi di Cia sottolinea che dal 2010 ad oggi l’incremento delle esportazioni italiane è più che quintuplicato rispetto a quello delle importazioni: 129% contro 19%.
Food&Beverage: quota di mercato modesta
Il Sace – la società del gruppo Cdp che lavora insieme alle imprese italiane per promuovere l’eccellenza del made in Italy in tutto il mondo – ha cercato di dare un valore ai nostri prodotti esportati verso Pechino: in un decennio, dal 2007 ad oggi, il giro d’affari è passato da 6,3 ad oltre 13 miliardi di euro. Il ventaglio di prodotti italiani destinati in Cina vede primeggiare alcuni settori come meccanica strumentale (30% sul totale export), mezzi di trasporto (15%), tessile e abbigliamento (10%), chimica (9%), prodotti in legno (6%). Bevande e alimentari? Non mancano, ma occupano – al momento – una quota veramente irrisoria rispetto al contesto generale. E’ la ragione per cui, secondo il Sace, l’Impero Celeste rappresenti in prospettiva un terreno assai fertile per l’intera filiera del made in Italy. Le previsioni confermano che proprio il settore alimentare e bevande sarà quello con maggiore potenziale di crescita nei prossimi 4-5 anni, con una tasso medio annuo del 9% a livello globale che arriverà al 12% nel mercato cinese.
Barriere d’ingresso al mercato cinese
Permangono alcune barriere nell’accesso al mercato di natura tariffaria e non tariffaria, specie nell’industria agroalimentare (obblighi di etichettatura, registrazione, lungaggini nelle procedure di controllo e ispezione alle dogane), così come miglioramenti sono richiesti circa la trasparenza del sistema legale. Da qui la necessità di un’approfondita conoscenza del mercato e delle sue regole, oltre che delle preferenze dei consumatori: serve uno sforzo aggiuntivo, osserva il Sace, rispetto a quello richiesto per mercati più “accessibili” e geograficamente meno remoti. Sforzo che è giustificato dalle prospettive e dalle dimensioni di un Paese in forte crescita.
Il rischio “italian sounding”
“È necessario intensificare il dialogo per semplificare le regole e stabilire norme comuni anche in materia di lotta alla contraffazione ed all’italian sounding”, avverte Luigi Scordamaglia, numero uno di Filiera italiana. “Oggi la Cina consuma ancora troppi prodotti spacciati per italiani che italiani non sono – aggiunge -. Da parte italiana sono stati già firmato accordi con diversi operatori cinesi, come ad esempio Alibaba, per impedire la vendita di prodotti alimentari italiani falsi che mettono a rischio lo stesso consumatore cinese ma bisogna fare di più. Anche per gli investimenti cinesi in Italia bisogna riequilibrare una situazione che vede le imprese cinesi investire ancora troppo in acquisizioni e non in investimenti greenfield che creano molti più posti di lavoro“.
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