Dai semi alla tavola: perché ci vogliono i semi giusti per un’agricoltura più bio
di Oriana Davini
Ultima Modifica: 22/04/2021
Servono più varietà di semi per avere più agricoltura biologica: l’equazione è semplice, eppure la realtà è completamente diversa.
Secondo i dati della Fao, negli ultimi 100 anni è scomparso il 75% delle specie vegetali impiegate in agricoltura: significa un impoverimento della biodiversità, causato soprattutto dal fatto che si coltivano poche varietà in porzioni di territorio sempre più estese.
E, dato ancor più significativo visto che oggi si celebra l’Earth Day 2021, il 60% dei semi venduti in tutto il mondo è prodotto solo da quattro aziende, produttrici anche di pesticidi e concimi impiegati nell’agricoltura industrializzata.
La strategia europea Farm to Fork
Entro il 2030, la strategia europea Farm to Fork prevede che i campi biologici arrivino al 25% della superficie agricola europea, a fronte dell’attuale 8%: l’Italia è messa un po’ meglio degli altri Paesi, visto che il bio oggi copre il 15,8% delle terre agricole.
Come raggiungere l’obiettivo indicato dall’Ue? Partendo dall’inizio, ovvero i semi adatti, in grado di produrre piante con radici ramificate e profonde, capaci di andare a cercare il nutrimento, che non viene fornito in forma immediata dai fertilizzanti chimici di sintesi. E che sappiano far fronte ai cambiamenti climatici.
Se ne è parlato all’interno di Terra Madre nel web talk “Dal seme alla tavola” organizzato da NaturaSì e Slow Food, in collaborazione con Fondazione Seminare il Futuro, che promuove il cosiddetto organic breeding, ovvero la ricerca e la selezione di sementi 100% biologiche.
L’importanza dei semi giusti
Secondo Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, “il problema non è solo quello del contenimento degli effetti avversi della crisi ambientale ma la costruzione di un equilibrio duraturo, la cui chiave è la rigenerazione. E in questo senso il biologico, con il suo impegno verso pratiche rigenerative del suolo e l’utilizzo di semi buoni e a disposizione degli agricoltori, è un punto centrale”.
I semi, sottolinea Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, “devono essere considerati un bene comune perché sono alla base della nostra vita: le grandi aziende che hanno il controllo delle sementi sono leader nella produzione di pesticidi e diserbanti, quindi c’è un intreccio tra chi produce semi e input chimici per il terreno”. Invece, prosegue, i semi andrebbero protetti, liberati e condivisi “per tutelare il patrimonio di diversità biologica e culturale che rappresentano, a prescindere dalla convenienza economica. Lo scopo è dare la possibilità agli agricoltori di produrre in modo sostenibile semi sani e in grado di rappresentare territori e culture”.
Per questo motivo, rilancia Fausto Jori, a.d. di NaturaSì, “occorre un piano di ricerca nazionale: è difficile pensare a una trabsizione ecologica che dimentichi l’agroecologia”.
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