Cantine Feudi, tra passione e business
di Emanuele Scarci
Ultima Modifica: 05/03/2020
Il 70% delle vendite di Feudi si ferma in Italia. Anche se l’estero negli ultimi anni è passato dal 20 a circa il 30% pur con un fatturato che è cresciuto da 20 a 30 milioni in dieci anni. “Siamo deboli all’estero perché la nostra categoria costa abbastanza – commenta il presidente di Feudi San Gregorio Antonio Capaldo – e non ha la notorietà di altre zone, ma anche il metodo classico non ha quella notorietà internazionale che si crede”.
Capaldo ammette di essere partito tardi rispetto ad altre aziende:
“Difficile pensare di crescere significativamente all’estero quando anche i grandi del metodo classico hanno una proiezione limitata. Inoltre, se si guarda bene, il metodo classico è schiacciato tra Prosecco e Champagne: servirebbero degli ambasciatori all’estero del metodo classico per crearsi spazi. E poi c’è anche un’ulteriore complicazione: lo Champagne quando diventa aggressivo costa, più o meno, lo stesso del metodo classico”.
L’azienda irpina è una delle più importanti del Mezzogiorno. Nel 2018 ha realizzato un fatturato consolidato di 27 milioni con 1,1 milioni di utile. Nel 2019 è salito a 30 milioni con un utile stimato intorno a 1,5 milioni. Le bottiglie vendute sono state 4,3 milioni, con un prezzo medio di 7 euro.
“Un prezzo medio abbastanza elevato – sottolinea l’imprenditore -. E questo è uno dei “limiti” all’estero che vogliamo difendere. In Irpinia la viticoltura è costosa: abbiamo vigneti molto piccoli, lavorazioni a mano. Quindi bisogna difendere prezzo e margini”.
Cosa volete fare all’estero? “Andarci sempre di più direttamente, almeno in Europa – risponde l’ex partner di McKinsey -. Ma la cosa che penalizza di più i nuovi entranti è quello di dover passare prima dall’importatore e poi dal grossista. Noi invece vorremmo fare quello che facciamo in Italia: togliere un livello d’intermediazione. Ciò però significa creare grandi strutture prima di arrivare al consumatore e comporta qualche bottiglia in meno, ma almeno riprendi in mano il tuo destino e, passo dopo passo, puoi aumentare i volumi”.
A questo proposito per Capaldo il test Germania è stato utile. Dopo essersi accorto che i suoi uomini assistevano l’importatore per oltre la metà delle vendite si è ulteriormente convinto della presenza commerciale diretta. “Per i nuovi entranti sui mercati esteri esiste solo questa strada. Le cantine più affermate possono rinunciare anche a 2-3 punti di marginalità, ma non noi. Chi deve scalare posizioni lo può fare solo così”.
In Germania il gruppo Feudi di San Gregorio punta all’integrazione logistica, avere cioè tutti i prodotti disponibili sul suolo tedesco senza che partano ogni volta dall’Italia. “Oggi in Germania – sostiene l’imprenditore – abbiamo il prototipo del modello di distribuzione, in Spagna abbiamo una rete di agenti e in Francia tanti grossisti. In realtà la rete può avere vari modelli. Quando scegli un importatore gli consegni la distribuzione e le chiavi del marketing budget cioè la gestione del brand sul mercato. Per me invece è importante governare lo sviluppo del brand e del prodotto. E’ capitato di avere un distributore con un grande brand italiano: la rete vendeva il vino del grande brand per fare il budget, ma sacrificava noi e ci schiacciava all’interno dell’assortimento”.
In effetti nell’ultimo decennio Feudi ha fatto un grande lavoro sulla riconoscibilità del brand. “Oggi è forse uno dei brand più iconici, anche a livello estetico, del panorama del vino italiano – sottolinea Capaldo -. Questo perché abbiamo pensato più al brand che alla vendita, all’estero abbiamo fatto il contrario. Ora spero di riuscire a farlo anche oltrefrontiera”.
Per l’azienda la Germania rimane il mercato principale, insieme agli Usa. “Poi in futuro – prevede l’imprenditore – allargheremo l’integrazione logistica a Belgio e Olanda: i paesi di mezzo con i quali potremo completare il quadrante Centro occidentale europeo”.
Importatori, gioie e dolori
Masi Agricola ha appena cambiato importatore oltre che negli Usa anche in Germania. Cosa le suggerisce? “Masi ha lasciato l’importatore tedesco che aveva anche Feudi. Poi la cantina della Valpolicella ne ha scelto un altro mentre noi, da quest’anno, facciamo da soli. Quando si cambia importatore il rischio è che il vecchio importatore faccia stock e poi lo ceda sul mercato compromettendo il brand. Tre anni fa quando lasciammo l’importatore negli Usa, non sapevamo nemmeno quanto vino avesse. E infatti registrammo turbative per un triennio tra vecchio e nuovo importatore. Certo, con l’importatore sei contento di aver venduto il vino sulla porta della cantina: a quel punto il problema è suo. Oggi invece sono convinto che la differenza stia nel fatto che dobbiamo fare come in Italia dove il vino lo consegniamo a casa del cliente”.
L’azienda riferisce di aver investito complessivamente una settantina di milioni per fare grande Feudi. Nel 2010 la prima acquisizione in Basilicata, con Basilisco, poi, tra il 2012 ed il 2014, in Puglia con Ognissole a Manduria e Cefalicchio, a Canosa di Puglia. Poi è stata la volta del Friuli, con il 33% di Sirch, azienda di famiglia di Pierpaolo Sirch con 120 ettari vitati, che è amministratore delegato di Feudi di San Gregorio, quindi la joint venture al 40% con il sommelier Federico Graziani sull’Etna (6 ettari vitati) e infine, nel 2016, il blitz da 10 milioni a Bolgheri con Campo delle comete.
Quando prevede il ritorno sull’investimento, per esempio a Campo delle comete? “Credo con mio nipote – risponde divertito Capaldo -. Però anche in Puglia e Basilisca parliamo di nipoti”.
Tuttavia l’imprenditore confessa di aver scoperto che esiste un nesso di proporzionalità tra investimento e rendimento. E quindi conclude che l’investimento a Bolgheri è protetto e il valore patrimoniale di Bolgheri è indipendente da chi lo detiene. “Per esempio – semplifica il patron di Feudi – se a Bolgheri un ettaro costa da 4 a 600 mila euro (non so quali siano le quotazioni attuali), il vino sfuso è quotato a 6 euro e una bottiglia di vino, con un marchio appena riconoscibile, veleggia sopra i 10 euro. Certo, questi prezzi hanno bisogno di un grande contributo del brand per raggiungerli. Se noi ci riusciamo come Feudi è perché siamo Feudi di San Gregorio, ma obiettivamente il Taurasi lo trovi alla metà e anche il vigneto costa la metà”.
Denominazioni nel mirino
Che cosa manca alla geografia dei vini di Feudi? “Come Regioni non manca nulla – risponde Capaldo – ma quelle in cui siamo dobbiamo crescere. Mi spiego: in regioni come Campania e Toscana dobbiamo potenziare alcune Denominazioni importanti. Ci sono Doc che stanno emergendo come la costiera amalfitana e penso alle isole. In Toscana ci piacerebbe il Chianti classico e Montalcino”.
“Siamo alla finestra aspettando l’occasione buona: sono certo che nei prossimi due anni capiterà. Oggi la finanza è importante e non bisogna perdere di vista il ritorno del capitale, ma il denaro si trova se il progetto e valido. La vera attenzione è costruire progetti validi a valutazioni non stratosferiche. Tuttavia la prossima acquisizione non sarà come le precedenti, che hanno contribuito poco alla crescita del gruppo, ma realtà produttive di almeno 5-6 milioni di fatturato”.
Poi Capaldo si sofferma sulle tappe della crescita. “Molti dicono che la prima soglia critica, come sostiene il mio amico Lamberto Frescobaldi, sia di 100 milioni. La nostra invece dev’essere a 40 milioni perché a 100 non c’arriviamo di certo. Ma vogliamo arrivare, nel prossimo triennio, ad almeno 50 milioni mediante acquisizioni. Anche perché diversi concorrenti si stanno concentrando”.
Ciò significa che nel triennio la crescita media annua dev’essere di almeno il 20%. Aprirete il capitale per sostenere le acquisizioni? “No, non pensiamo né alla Borsa né a un fondo di private equity. Faremo da soli. I tempi lunghi del business del vino sono inconciliabili con la Borsa. Mentre si potrebbe individuare un fondo d’investimento, ma poi vorrebbe uscire dopo 5 anni. Non ci siamo: il nostro non è il modello Farnese, un modello fantastico”.
Qualche player internazionale ha bussato da Feudi? “No, forse perché siamo piccoli. Sicuramente bussano da chi ha 70-80 milioni di fatturato, una massa critica obiettivamente diversa”.
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