Cantine Feudi: la passione del vino con un cuore verde
di Emanuele Scarci
Ultima Modifica: 05/03/2020
Ha conseguito un master alla London school e per dieci ha fatto il consulente per Lazard e McKinsey.
“Noi veniamo da lì e non dal mondo del vino – mette le mani avanti Antonio Capaldo, presidente di Feudi San Gregorio -. All’inizio mio padre con i fratelli e i cognati hanno investito in quest’azienda. Poi, nel tempo, ci siamo ritrovati azionista di riferimento, ma non siamo cresciuti con quell’idea. Il mio percorso formativo l’ho fatto pensando ad altro. Poi d’improvviso è nata la grande passione e, mentre facevo il partner di McKinsey, ho frequentato i corsi da sommelier”.
Fondata nel 1986, Feudi di San Gregorio è nata con l’intento di valorizzare i vitigni autoctoni della tradizione campana, come il Greco, il Fiano e l’Aglianico, facendo ricerca in un territorio, l’Irpinia, vocato alla coltivazione di viti di qualità. Ma è Antonio Capaldo a reinterpretare l’anima agricola e a fare della cantina di Sorbo di Serpico anche una sorta di laboratorio del design e all’arte. Dietro ciascuna bottiglia, etichetta o confezione c’è la ricerca e la cura del dettaglio e del bello.
“Nel 2009 quando sono diventato partner di McKinsey c’era, da una parte, la voglia di capire quante delle ricette imparate da consulente fossero sbagliate – scherza l’imprenditore ultraquarantenne -, dall’altra la necessità che un membro della famiglia prendesse in mano la gestione dell’azienda, priva di guida da due anni. E’ però trascorso del tempo prima di capire le dinamiche di un settore particolare, soprattutto per la variabile tempo. In questo mestiere c’è un tempo per produrre e un tempo per modificare la marginalità. Troppo rispetto a quanto avessi imparato”.
Il cuore verde
L’Irpinia, cuore verde dell’entroterra campano, si presenta come un territorio prevalentemente montuoso con vette che superano i 1.800 metri. I vigneti di Feudi hanno piccole estensioni e vanno scovati tra i boschi, gli ulivi secolari e le erbe aromatiche. Questi si trovano nella provincia di Avellino (Fiano), nell’areale di Tufo vicino alle miniere di zolfo (Greco), a Taurasi (Aglianico) e nel Sannio (Falanghina e Piedirosso). Tutti gli appezzamenti sono situati su pendii compresi fra i 350 e i 700 metri.
Dalla consulenza delle grandi imprese del Nord alla gestione di una piccola impresa vitivinicola del Sud, com’è stato il salto? “Non da poco. Nel vino non muovi delle leve e immediatamente ottiene dei risultati – risponde Capaldo -. Fortunatamente nemmeno in negativo: fai una fesseria (e ne ho fatto alcune) e subito dopo cogli le ricadute sulla produzione e sul commerciale. No, non funziona così. Questo perché la filiera può contare su strette relazioni che agiscono da ammortizzatore. I marchi del vino, non avendo dietro gli investimenti della Coca-Cola, hanno una resistenza unica. La forza di percezione del brand è importante. Comunque dal 2009-2010 abbiamo iniziato a lavorare in maniera più strutturata, ben coscienti che, con i tempi del vino, ci vogliono 10-15 anni per fare delle aziende. E noi siamo partiti quasi da zero”.
Alla fine del suo periodo di “apprendistato” ha poi avuto un bel colpo di fortuna. “No, la fortuna è stata all’inizio: quella di un’azienda con tanti progetti lasciati a metà, tipico delle familiari. Il mio approccio manageriale è che se tu inizi una cosa la porti fino in fondo”.
Uno dei tanti progetti importanti lasciati a metà è quello denominato Dubl, il progetto di spumantizzazione con metodo classico che nasce nel 2004 partendo dal potenziale delle uve campane Greco, Aglianico e Falanghina e dalla voglia di aprire nuovi spazi produttivi.
“In realtà era stato già lanciato ma annaspava perché era un progetto complesso: il sistema di produzione ha bisogno di tempo per essere assimilato. Infatti oggi, dopo anni, abbiamo quasi 200 mila bottiglie di metodo classico, non poco per la Campania. E lo esportiamo per il 10%”.
“In Feudi di San Gregorio la sperimentazione fa parte della normalità – ribadisce l’imprenditore irpino -, la qualità è più facile se tu hai una macchina che ruota con volumi rilevanti, con una storia importante e con investimenti di spessore. Feudi è un po’ l’ammiraglia del gruppo, dove non possiamo permetterci di sbagliare. Ne va della sostenibilità economica di tutto il gruppo”.
La carta dei vini
Dalle cantine di Feudi San Gregorio escono i vini autentici dell’Irpinia. Il Serpico, proveniente dalle vigne centenarie di Taurasi; il Pàtrimo, nasce da una singola vigna storica di Merlot originariamente confusa con l’Aglianico, ma poi riscoperta, valorizzata e prodotta separatamente; il Campanaro, unico blend da uve Fiano e Greco; il Piano di Montevergine, la Riserva proveniente dalla vigna omonima di Taurasi; la Sirica, dall’omonimo vitigno “recuperato” durante gli studi del Dna condotti sulle piante storiche e vinificato separatamente.
In Puglia e Basilicata la cantina di Serpico ha investito, all’inizio del 2000, acquisendo Basilisco e Ognissole e i marchi. Una sorta di Magna Grecia al contrario: dalla Campania ci si è mossi verso la Puglia. “La cosa sta andando bene – commenta Capaldo – abbiamo buoni tassi di crescita in categorie che non sono quelle della Campania e che ci devono aiutare a bilanciare il mix Italia-estero. Piano piano. L’obiettivo è salire al 50-50, senza perdere in Italia”.
Non c’è stato quindi nessuna passione nell’acquisto di Basilisco e Ognissole? “Al contrario – replica Capaldo – sono tutti investimenti nati da un colpo di fulmine. C’è una componente di passione che lega tutti questi territori. Ne siamo innamorati perché abbiamo trovato caratteristiche particolari ed elementi come la luce, l’atmosfera, le sensazioni. L’idea della Basilicata e della Puglia, cioè di Basilisco e Ognissole, è stato un completamento dei principali vitigni autoctoni del Sud. In Basilicata e Puglia abbiamo fatto un progetto di conduzione biologica e biodinamica”.
Per la famiglia Capaldo le due tenute sono state due occasioni per esplorare metodi di conduzione diversi da quelli convenzionali. Non si voleva quindi soltanto cercare maggiori spazi commerciali, anche perché le dimensioni sono ridotte: 60 ettari di proprietà di cui 50 vitati.
“Oggi sono condotte da una ragazza che costituisce l’anima bio di queste tenute – osserva Capaldo -, un po’ anticonvenzionale rispetto a Feudi che ha un’impostazione classica, con tanti conferenti e un eccellente rapporto qualità-prezzo su tutte le fasce. Con Basilisco e Ognissole ci possiamo permettere anche di sbagliare. Infatti ci sono state annate saltate perché si è spinto molto sulla sperimentazione”.
Gita in Toscana
Campo delle Comete è invece un sogno puro. “Volevamo andare a Bolgheri e l’abbiamo trovata nel 2016 – ricorda Capaldo -. Aveva 15 ettari che abbiamo portato a 25 di proprietà, con una cantina di vinificazione. In origine era una proprietà della famiglia Guicciardini Strozzi. Aveva una forte vocazione verso i vini rossi e l’estero. La Campania, per quanto il Taurasi sia eccellente e l’Aglianico sia una grande denominazione, tira di più sui vini bianchi. Quindi abbiamo deciso di puntare prevalentemente sui rossi: vedi l’Etna, la Puglia e la Toscana”.
Siete un caso raro: una cantina che dal Sud si spinge verso il Nord. “Sì, siamo stati la prima azienda del Mezzogiorno. E abbiamo trovato un’ottima accoglienza: vicini straordinari come Sassicaia e Antinori. Non dico che tutto funzioni alla perfezione. Comunque ti senti in un club a cui devi dare un contributo nei prossimi anni. E un esame di maturità per noi. Il consorzio è molto aperto e, per chi viene dall’esterno come noi, Allegrini e Angelo Gaja, c’è la volontà di dare qualcosa”.
Avete scelto i posti più belli e prestigiosi della viticoltura italiana, anche l’Etna. Vi siete fatti ammaliare da uno dei più suggestivi paesaggi italiani. Cos’è successo? “Il mio amico Federico Graziani aveva un piccolo vigneto di alberello vecchio da cui faceva un vino che si chiama Profumo di vulcano. Pochissime bottiglie ma una gran voglia di crescere. E da lì un po’ per amicizia, un po’ per l’attrazione di questo luogo incredibile abbiamo investito”.
Sull’Etna si fanno vini davvero particolari. “Noi abbiamo in portafoglio il Greco di tufo di Irpinia che è un bianco come nessun altro al mondo. E sull’Etna si fanno dei rossi e dei bianchi con caratteristiche uniche. Questa storia del vulcano, Bolgheri a parte, la portiamo avanti da tempo. Abbiamo vini vulcanici in Campania e in Basilicata e anche sull’Etna. Per me questa coerenza stilistico-filosofica emerge come una categoria, certo piccola, ma paga. La terra nera dell’Etna, indubbiamente più nera del Vesuvio, ci dà forti sensazioni”.
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