110, di lode e di fascino, per il Grand Hotel Rimini
Il 3 luglio sarà presentato il libro “Grand Hotel: Rimini il mito”. Il GHR consacrato da Federico Fellini nel film, 'Amarcord' è monumento nazionale dal 1994
di Donato Troiano
Ultima Modifica: 10/06/2018
Il Grand Hotel di Rimini spegne 110 candeline e li celebra con una serie di iniziative per tutta l’estate coinvolgendo la città di Rimini.
Anteprima dei festeggiamenti: il 26 giugno con “L’Ouverture de la Terrasse d’été”
Si comincia con la serata del 26 giugno sulla magica terrazza del Grand Hotel con lo showcooking di Claudio Di Bernardo (executive chef del GHR) e di altri 10 famosi cuochi ai fornelli: Paolo Bissaro della Canonica, Daniele Succi dell’I-Suite, Silver Succi di Quartopiano, Fabio Rossi di Rigni, Omar Casali chef del Marè, Mariano Guardinelli di Abocar, Enrico Croatti dell’Orobianco, Riccardo Agostini de Il Piastrino e Paolo Raschi del ristorante Guido.
Le feste in terrazza si ripeteranno ogni martedì, giovedì e sabato per tutta la stagione estiva.
GHR: inaugurato il 3 luglio 1908, il 3 luglio 2018 la presentazione del libro
Il 3 luglio verrà presentato il libro “Grand Hotel: Rimini il mito – Dall’Ostenda d’Italia al simbolo dell’hotellerie futura”, curato da Letizia Magnani ed edito da Minerva edizioni.
Il 5 luglio, alla vigilia della Notte rosa, il Grand Hotel rivivrà i fasti dell’alta società degli Anni venti e della belle epoque con una serata di gala.
Lo stesso giorno sarà visitabile l’esposizione ‘110 anni di storie di viaggi’, un percorso nei saloni del Grand Hotel, allestita nella sala ‘Tonino Guerra’.
Ma le celebrazioni non si fermeranno qui, il 20 luglio e il 24 agosto sarà la volta di un esclusivo beach party, Dal mare alle stelle.
La presentazione a Milano al Principe di Savoia
Il ‘grande anniversario’ è stato presentato a Milano da Paola Batani, ceo Batani Select hotel, insieme al sindaco di Rimini Andrea Gnassi, all’assessore regionale al Turismo Andrea Corsini, al direttore del 5 stelle lusso di Rimini, Fabio Angelini. L’incontro è stato moderato dal giornalista e docente universitario, Ruben Razzante. C’erano tutti nella dorata sala del Principe di Savoia, mancava solo il motore e l’artefice del rilancio del GHR, Antonio Batani, Tonino per tutti, scomparso nel 2015.
E proprio da un ricordo del padre Tonino, la figlia Paola dice: «Quando dieci anni fa mio padre portò a termine l’acquisizione del Grand Hotel – ricorda Paola Batani – la sensazione fu quella di aver realizzato un sogno. E’ molto più di un hotel, è un monumento “senza tempo”, un vero mito. Lo stesso Federico Fellini, che ne aveva fatto la sua residenza a Rimini, lo viveva come fonte di ispirazione e seduto su un divano nella hall osservava il passaggio delle persone e quelle che lo incuriosivano le tratteggiava su carta, un bozzetto che in alcuni casi ha dato vita a personaggi dei suoi film».
Il direttore Fabio Angelini, dopo aver sottolineato che il Grand hotel è una icona dello stile italiano, aggiunge: «dirigo il Grand Hotel da cinque anni e, giorno per giorno, assaporo l’atmosfera di un “monumento” che ha fatto la storia del turismo in Italia e nel mondo. Non è rivolto al mare, ma verso il piazzale che un tempo fu una vera agorà».
«Oltre un secolo di storie è racchiuso all’interno di queste stanze – dice Andrea Corsini, assessore regionale al turismo Emilia- Romagna – che rivivranno per sempre in noi grazie alle immagini dell’Amarcord felliniano. Un’eredità importante non solo per la città di Rimini, ma per l’Emilia-Romagna intera, che rende un onore essere qui ad annunciare le 110 candeline del Grand Hotel con un mese di festeggiamenti. Il nostro turismo vive di cultura, luoghi, ma anche di divertimento, sport, capacità di accogliere e di simboli come questo che hanno fatto della ‘villeggiatura’ la cifra del viaggio in Emilia-Romagna, una destinazione premiata proprio quest’anno dalla prestigiosa Lonely Planet nel Best in Europe». Non a caso, in questo fine settimana, si svolge a Rimini il primo Ulisse Feste.
Il Grand Hotel di Rimini meta preferita per le celebrità internazionali
Il progetto del Grand hotel lo firmò un architetto metà ticinese metà sudamericano, Paolito Somazzi; e i primi ospiti, all’ inaugurazione del primo luglio 1908, furono pressoché tutti illustri forestieri, duchi principi e ministri e perfino un’ ex regina, quella di Sassonia.
Poi, a parte Federico Fellini che è sempre stato di casa (qui ha fatto nascere Amarcord, e nel film ne ha ricreato l’atmosfera e il fascino di “vecchia signora, con la sceneggiatura di Tonino Guerra) negli anni arrivarono l’ imperatore Hirohito e lady Diana, il chirurgo Christian Barnard, gli statisti Kissinger, Gorbaciov, Bush senior, Sandro Pertini, i grandi della medicina e della scienza, Umberto Veronesi, Frederick Leboyer, Deepack Chopra, Rita Levi Montalcini, poi il Dalai Lama, la Regina Rania di Giordania. Gli uomini e le donne di cultura e della scienza: Umberto Eco, Dario Fo, Franca Rame, Enzo Biagi, Oliviero Toscani, Vittorio Sgarbi, Luciano De Crescenzo, Willy Pasini, Alberto Bevilacqua, Furio Colombo, Herman Daly, Carlo Rubbia.
E i tanti personaggi dello spettacolo, Ornella Muti, Maria Grazia Cucinotta, Carol Alt, Monica Vitti, Alberto Sordi, Paolo Villaggio, Roberto Benigni, Stefania Sandrelli, Valeria Marini, Claudia Kohl, Pamela Prati, John Turturro, Pippo Baudo, Katia Ricciarelli, Sting, Claudio Baglioni, Adriano Celentano, Vasco Rossi, Antonello Venditti, Franco Battiato, Joe Cocker, Martha Graham, Sara Voughan; Sabrina Ferilli, Claudia Cardinale, Sharon Stone, il cantante Battiato.
Cento anni da Grand Hotel Un articolo di Michele Smargiassi
da “la Repubblica” 8 giugno 2008
Rimini. Il pianoforte bianco non c’ è. Non ci starebbe neppure: dalla porta al minuscolo balconcino saranno cinque o sei passi. L’ immensa stanza del sultano con tutto il suo harem allora dove sarà? Qui c’ è solo, incorniciato, un piccolo arazzo con danze di bajadera. Non c’ è neppure il letto rosso a baldacchino dal quale la Gradisca invitò timidamente il Principe: «Maestà, gradisca…»; ma un sobrio due-piazze con testiera in paglia di Vienna. Nel salottino attiguo, divanetto e seggiole con seduta di velluto, e clamorosamente incongrua una poltrona di pelle verde. Se ha un fascino, la suite 315 del Grand Hotel di Rimini, la preferita di Federico Fellini, è la sua atmosfera borghesemente dimessa e demodé. Contraddetta da due giganteschi monitor al plasma: «I clienti li chiedono…», si scusa Cristina Bernagozzi, la giovane vice-direttrice.
Una notte per dormire dove Fellini ha sognato costa 960 euro, ma c’ è la lista d’ attesa. Tra tutte le 117 camere dell’ edificio principale, una diversa dall’ altra, gli americani chiedono solo quella, la 315. Con la stessa cifra potrebbero pagarsi lussi maggiori, ma nessun altro nel prezzo include il mito. Specchiarsi in questa specchiera liberty a petalo d’ orchidea, dove il Maestro si guardava in faccia ogni mattina (l’ ultimo a riuscirci, perché il fondo d’ argento è ormai corroso da macchioline). Bagnarsi nella stretta vasca tra i marmi neri venati del bagno. L’ intonaco un po’ si solleva, ma i clienti, soprattutto gli inglesi, vanno in visibilio per «i segni del tempo», adorano gli infissi che non chiudono e pagano il conto felici. Cent’ anni sono tanti anche per l’ albergo più famoso del mondo. Ma il Grand Hotel, nonostante il suo aspetto pannoso da gran torta saint-honoré, ha la scorza dura. Non molla, la vecchia signora. Ha resistito a mille ingiurie, guerre, incendi, all’ infedeltà dei suoi molti pigmalioni.
Negli ultimi cinque anni ha cambiato quattro volte proprietario, ogni volta rischiando grosso, venduta e svenduta, gestita da amministratori giudiziari, oggetto di Opa amichevoli e ostili, ridotta a garanzia per titoli atipici; ha avuto duemila padroni in un colpo solo (gli azionisti-creditori lasciati in un mare di guai dal crac dello speculatore Cultrera), è stata in braccio all’ ultimo dei “furbetti del quartierino”, l’ immobiliarista Coppola; eppure, come la Teresa Batista di Amado, è rimasta sempre miracolosamente vergine, pronta a darsi con tutto il cuore al nuovo principe azzurro. Che è sceso appena in tempo da cavallo per baciarla, lo scorso dicembre, alla vigilia del compleanno a due zeri che rischiava di festeggiare davanti a qualche ufficiale giudiziario, e invece si celebrerà la sera del 3 luglio con quattrocento invitati, quartetti d’ archi, champagne e l’ intera facciata trasformata in un grande schermo su cui scorreranno sequenze dei film, indovinate di chi? è arrivato appena in tempo questo principe azzurro basso di statura, settantadue primavere sulle spalle, ma lo sguardo del romagnolo deciso, da Passator Cortese.
Si chiama Antonio Batani: è il cameriere che s’ è comprato il Grand Hotel. Eccolo, minuscolo tra le grandi colonne della hall, mano tesa e bel sorriso soddisfatto: «Sono cinquant’ anni che faccio la corte a questa signora». Ora gli ha detto sì. «Non se ne pentirà. Non ho comprato il Grand Hotel per rivenderlo, o per tenerlo come un titolo di Borsa. L’ ho comprato perché è il Grand Hotel».
Cosa fosse il Grand Hotel negli anni Cinquanta per un ragazzetto figlio di contadini sceso da Bagno di Romagna a cercare fortuna nella capitale delle vacanze, è facile immaginarlo. Tonino ci passava e ripassava davanti in bicicletta e brontolava: «òs-cia s’ lé bèl, chissà quanto costa». Ora lo sa: dicono 65 milioni. è una sfida: «Adesso deve tornare a rendere, non è possibile che un albergo così fosse in perdita». A Rimini sono contenti che la vecchia signora abbia trovato finalmente un buon partito, e soprattutto che sia tornata a casa, in sposa a «uno di noi», un romagnolo come si deve, con la biografia giusta. Batani non è solo un imprenditore del turismo: è il condensato, la metafora della storia del turismo in Riviera. A ventidue anni in Svizzera, studente di scuola alberghiera di giorno, cameriere di sera per mantenersi. Al ritorno, coi magri risparmi di papà Sante, affitta a Cervia una pensione dal nome che è un distillato di pensionità: “Delia”, sedici camere e quattro bagni. Poi, anno dopo anno, la scalata alle stelle. Il primo alberghino in proprietà, l’ Hotel Batani: «Errore, gli alberghi non devono avere nomi da uomini, ma di donne, o di sogni». Da due stelle a tre, a quattro. Oggi Antonio Batani è proprietario di una catena di dieci alberghi, la “Select Hotels”, due dei quali a cinque stelle. Ma continua a firmarsi “famiglia Batani” come fosse ancora il gestore della pensione Delia, al cui bureau incontrò Luciana, sua moglie, che gli ha dato due figli che lavorano con loro. Continua a fare il giro, tutte le sere, dei suoi hotel, entrando dalla porta sul retro, cogliendo di sorpresa il maître, controllando la pulizia in cucina.
Farà così anche qui? «Soggezione non ne ho. Paura, un po’ . Questo non è un albergo come gli altri». Certo che no. è un monumento nazionale, vincolato dalle Belle Arti nel 1994. Difficile metterci mano. L’ ascensore, ad esempio, ha una porta di appena sessanta centimetri: ma i muri non si possono toccare. Un affezionato cliente disabile s’ è fatto fabbricare una carrozzina su misura per poterci entrare. Scordarsi le scenografie di Amarcord: quel Grand Hotel fiabesco era quasi interamente ricostruito a Cinecittà. Quello reale, ad esempio, non ha il sontuoso scalone di marmo a forma di arpa, ma una scala quadrata, con un’ elegante ringhiera liberty, ma non più larga di quelle di un normale condominio.
Ma è il Grand Hotel, non un albergone da parvenu di Las Vegas. Il suo fascino sta nei dettagli, non nella metratura. Nei mori settecenteschi di legno scrostato che reggono le lampade, nei comò francesi delle tre suite regali, nei pavimenti di veneziana sui toni del rosa, nelle cabine telefoniche che sembrano bianchi confessionali art déco. Nella scelta un po’ snob di girare al mare il fianco sinistro, la facciata che sbircia solo di sbieco la costa e cerca invece all’ orizzonte la rocca di Gradara, quella di Paolo e Francesca. Né i danni della guerra, né i delitti architettonici perfino peggiori di molti suoi ex padroni l’ hanno sfigurato irreparabilmente. Biacche marroncine sulle pareti della sala delle quattro colonne, sul civettuolo “marmorino” dei corridoi e perfino sulle colonne monolitiche della hall. Orripilante alluminio anodizzato nella veranda ristorante.
Batani ha già cominciato a togliere intrusioni e ripristinare i rivestimenti e i colori originali (avorio, bianco e oro). Sul muro del corridoio che porta alla Sala Verde c’ è una macchia nerofumo: diamo una pitturatina? «Per carità», insorge Cristina, «questo è un reperto storico, è l’ ultima traccia dell’ incendio del 17 luglio 1920, forse la metteremo sottovetro». Misterioso incendio. Nel 1915 a Rimini era bruciato l’ Hungaria, l’ hotel dell’ aristocrazia asburgica, qualcuno sospettò un gesto irredentista. Anche il Grand Hotel aveva una clientela altolocata e mitteleuropea, ed era da poco finita la Grande guerra. Mah. I romagnoli son garibaldini. Fattostà che andarono in fumo le due cupole di legno catramato (Batani vuole ricostruire anche quelle) che davano al palazzo quel certo stile baltico. Cent’ anni fa, oggi suona strano, i modelli dell’ eccellenza balneare venivano dai gelidi mari del Nord. Per cercare il suo posto al sole nella nascente industria delle villeggiature, Rimini dovette spacciarsi per anni come «l’ Ostenda d’ Italia». La cineteca comunale conserva ancora un cortometraggio d’ epoca, forse di Luca Comerio, cineasta pioniere, che porta quel titolo ed è forse il primo film pubblicitario balneare del mondo. Fu la lungimiranza e forse la testardaggine del sindaco Camillo Dupré a far iniziare la favola, quando nel 1906, dopo aver costruito a spese pubbliche il primo stabilimento balneare, il Kursaal, offrì terreni a poco prezzo a chi volesse costruire un grande albergo internazionale. Ma il mare, per i riminesi, era ancora solo una vasca piena di pesci. Si presentò un’ impresa di fuori, la Società milanese alberghi ristoranti e affini, quella del Biffi; il progetto lo firmò un architetto metà ticinese metà sudamericano, Paolito Somazzi; e i primi abitatori, all’ inaugurazione del primo luglio 1908, furono pressoché tutti illustri forestieri, duchi principi e ministri e perfino un’ ex regina, quella di Sassonia. Lingue ufficiali francese e inglese: al Grand Hotel ricco di ogni comfort si pranzava a uno dei cinque restaurant, e dopo qualche ora ai bains si sorbiva un apéritif al club des étrangers con un servizio di premièr ordre.
A colorare in qualche modo il luogo di tinte italiche e un po’ machiste furono le imprese adulterine di Mussolini, che lasciata la povera Rachele nella modesta villa familiare di Riccione correva qui a incontrare Claretta in gran segreto, si fa per dire: motoscafi e uniformi, saluti romani e baciamani. La soglia della vetrata che porta dal bar alla piscina (la prima di tutta la Riviera) mostra le venature del legno, consumata da decenni di scarpine di lusso. «Non voglio cambiare nulla, sarebbe un suicidio, voglio solo ritrovare l’ originale», medita Batani. «è più di un albergo, è lo scenario di una città». Di un paese intero, forse. Del suo immaginario. Senza la fantasia, il Grand Hotel sarebbe un relitto di veliero arenato. Una metratura edilizia ad alta rendita pronta alla conversione in residence. Hotel più lussuosi, ce n’ è ormai a bizzeffe. Ma c’ è di mezzo il Maestro. Bisognerebbe passare sul suo cadavere. Fellini ha trasferito di peso questi quattro piani di un liberty ordinario nelle regioni della fantasia, unico e irripetibile scenario di lussurie, malizie e narrazioni fiabesche. Scrisse: «Le sere d’ estate il Grand Hotel diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood». Chi lo frequenta non lo vede com’ è, ma come lo immaginò lui. Non furono certo il suo moderato charme né le sue comodità un po’ invecchiate a portare qui l’ imperatore Hirohito o lady Diana o il chirurgo gran viveur Christian Barnard, o Kissinger, Gorbaciov, Bush senior, il Dalai Lama.
Nella lunga stagione, trentacinque anni, dell’ amico patron Arpesella, forse l’ unico proprietario che abbia rispettato lo spirito del luogo, Fellini era di casa tra questi marmi. Letteralmente: lo abitava tutto quanto, lo riempiva. Adagiato sui sofà del salone, col taccuino di schizzi in mano. Irrequieto in cucina, dove convinceva i cuochi a fargli spentolare un brodetto. E perfino nel bureau, seduto di fianco ai centralinisti, deliziandosi a ficcanasare tra gli affari sentimentali dei clienti, «Ah sì? Lui ha detto proprio così? E la moglie?». è un albergo abitato da un fantasma gentile, guai a chi lo volesse cacciare: crollerebbe, come la casa Usher. Batani, Fellini non l’ ha mai conosciuto. Ma è come se fosse nato in un suo film. «I clienti», dice, «vanno trattati come dei signori, come dei sultani. Alla pensione Delia come al Grand Hotel. Rimini ha cominciato ad avere problemi quando i proprietari degli alberghi sono diventati più ricchi dei loro ospiti». Il Grand Hotel, negli ultimi anni, s’ è riempito di russi arricchiti, un po’ cafoni, mance esagerate come la loro sicumera, Batani quasi cacciò via uno che fumava al ristorante maltrattando il cameriere che garbatamente gli ricordava il divieto. «Vorrei recuperare una clientela di classe». Vuole i sgnùr. Il suo slogan: Grand Hotel per grandi famiglie. Vuole i grandi imprenditori, i manager indaffarati che cercano un riposo di prestigio senza allontanarsi troppo dal consiglio d’ amministrazione. Vuole «i tedeschi, i miei cari tedeschi, i clienti ideali, mai una lamentela, grandi abbracci».
Vuole il ritorno degli anni d’ oro della Riviera. La parola d’ ordine della Rimini del nuovo millennio, “de-stagionalizzare”, ossia riempire gli alberghi anche d’ inverno, con le fiere, i convegni, i congressi, Batani la capisce ma non la gradisce poi tanto. «La vera “stagione” è sempre stata una sola, l’ estate, la stagione dei bagni. Se non curi l’ estate, non avrai l’ inverno», dice come la formica della favola, «e il Grand Hotel da un secolo è il più grande simbolo dell’ estate che sia mai esistito». Fino al 1968 apriva solo novanta giorni l’ anno, da giugno a settembre. Dopo, è caduto in tentazione. Quel “centro congressi” costruito nel ’92 mutilando il parco. Quel night club nei seminterrati, Lady Godiva, che del mare si fa un baffo, potrebbe stare anche a Courmayeur.
Ma l’ immagine del Grand Hotel erano i tendoni a strisce sulla spiaggia, gli abiti di lino bianco, le sedie di vimini sulla grande terrazza, i cappelli di paglia e le cannucce da passeggio. Ha vissuto cento estati e non ha ancora conosciuto il suo autunno. Fu sicuramente per non disturbare “la stagione” che il Maestro, a cui il Grand piaceva anche d’ inverno, chiuso e immerso in una bambagia di nebbia, lasciò questo mondo nel mese piovoso, un 31 ottobre. Le tende di tulle della suite 135, quel giorno, furono viste agitarsi fuori dalle finestre aperte, come in un saluto.
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